La donna dell’Arno – Racconto breve
Nel corso del 2024, ho partecipato a un concorso letterario che però non ho vinto; il racconto, però, mi piaceva abbastanza… perciò eccolo anche per voi! Buona lettura!
La donna dell’Arno
Se scomparissi adesso, a chi importerebbe?
Ormai erano mesi, forse anni che quella domanda mi rimbalzava nel cervello ogni notte, al punto da stordirmi. L’estate mi faceva un brutto effetto, me l’aveva sempre fatto. Stavo seriamente valutando di disinstallare i social per qualche settimana, finché non fosse passata la smania delle ferie e dei post per festeggiarle.
Mi alzai scarruffata, nervosa e più stanca di quando ero andata a dormire, e mi piazzai davanti al computer. Tecnicamente era un giorno di ferie, ma non ci sono ferie per i freelance. Infatti, anche Leonardo stava lavorando, un puntino grigio in una lista verde di contatti online. Mia madre si aggirava per il corridoio, non so bene che stesse facendo, e io stessa non sapevo bene cosa fare.
Accesi il ventilatore e mi preparai a morire di caldo fino alle due di notte. La psicologa era in vacanza (buon per lei) con il suo nuovo marito. Chissà cosa si prova ad avere un marito, mi chiedevo. Chissà cosa si prova a sentirsi chiedere “vuoi sposarmi?”, a piangere di gioia mentre la persona che ami ti infila al dito un anello di promesse e carati. A me non sarebbe mai successo, questo era evidente; Leonardo mi amava, ma a modo suo. Figuriamoci se si sarebbe mai piazzato in casa una mezza sfaccendata come me. Al massimo avrei potuto passare l’aspirapolvere e cucinargli il pranzo quando doveva lavorare.
Quel giorno fu come tutti gli altri; una noia al vapore, un milione di litri d’acqua ingollati, altrettanti sudati. Nessun cliente, nessun amico che venisse a controllare in che condizione fossi. Quale amico? era la vera domanda. Quei pochi che avevo erano tutti sparsi ai quattro angoli del mondo oppure erano amici di Leonardo.
Finalmente arrivò la notte, con la sua aria respirabile e una buona dose di voglia di fare. Sono sempre stata un po’ come i gatti: più sveglia di notte che di giorno. Rimasi a chiacchiere con Leonardo in videochiamata fino a tardi, poi andai in camera mia a leggere qualcosa. Sul comodino c’era un libro giapponese; parlava di un ragazzo della mia età con un tumore terminale, che aveva stretto un patto col diavolo per allungarsi un po’ la vita. Forse non era il libro giusto in quel momento, mi faceva sentire in colpa per i sentimenti che provavo. Rimasi per un po’ sul letto, con le gambe alzate contro il muro e la testa fuori dal materasso, a guardare la mia camera da un’altra prospettiva. Fu allora che notai la muffa sul soffitto, sopra la finestra, ed emisi un suono di disgusto.
Non fu il libro, non fu la muffa, non fu nemmeno la voglia di stare un po’ al fresco; so solo che mi vestii, mi infilai le scarpe e sgattaiolai piano fino alla porta d’ingresso. Non ero mai uscita di nascosto, anzi, non ero mai uscita da sola a quell’ora.
Chiusi la porta, con le chiavi in mano e la borsa a tracolla. Non presi nemmeno l’ascensore, mi feci quattro piani di scale e poi mi ritrovai fuori di casa. L’illuminazione artificiale non era granché, nonostante la sala giochi sempre aperta e piena di gente. Per fortuna, però, non trovai nessuno. Non era un brutto quartiere il mio, ma forse sarebbe stato meglio tornarsene a dormire… e invece le mie gambe si misero in moto, senza nemmeno chiedermi il permesso. Non ero neanche sicura di sapere dove stessi andando, col mio senso dell’orientamento inesistente. Strinsi forte lo smartphone; nel peggiore dei casi, avrei comunque trovato la strada col navigatore.
C’era il letto vuoto di un torrente, lì vicino; forse il gracidio che avevo sentito in primavera proveniva da lì. Camminai fino a trovare il ponte che mi avrebbe permesso di passare dall’altra parte, un ponte di legno di recente costruzione. In realtà non stavo camminando, stavo praticamente correndo; con certe notizie di cronaca nera, mi sentivo una vera stupida a starmene lì da sola nel buio. Era ovvio che dovevo tornare a casa, eppure non ci stavo riuscendo.
Passai davanti alla casa della mia migliore amica d’infanzia. Mi sarebbe piaciuto citofonarle e farle prendere un colpo, ma era in Spagna. Durante i caldi giorni estivi da studentesse liceali, io e lei seguivamo sempre lo stesso schema: partivamo da casa sua, andavamo al negozio di alimentari più vicino e ci riempivamo di tè freddo e cibo spazzatura, dolce o salato. E poi, incuranti del sole e del sudore, passeggiavamo sul sentiero che costeggiava l’Arno, a qualche centinaio di metri da lì.
Non ricordavo la strada, ma me la cavai grazie alla torcia e al navigatore dello smartphone. Dopo alcuni minuti, finalmente mi trovai di fronte a quel tappeto lucido e bagnato che scorreva placido nel suo letto (a differenza mia).
A volte, quando ero bambina, mio padre mi portava a pescare, ma i pesci li ributtavamo sempre in acqua, altrimenti ci rimanevo male.
Distesi a terra un asciugamano che avevo nella borsa e mi sedetti sullo spiazzo di cemento per pescatori dove andavo sempre con la mia amica. Rimasi un po’ in silenzio, a contemplare il cielo nuvoloso, senza stelle, e l’acqua nera. Non avevo mai imparato a nuotare; ci avevo provato poco, forse, ma sapevo a malapena stare a galla e l’acqua mi terrorizzava. Se fossi caduta là dentro… non sarei mai riuscita a riemergere. Se fossi caduta, a chi sarebbe importato?
A parte ai miei genitori, dico. Leonardo avrebbe pianto per me? Sì, certo. Ma onestamente un ragazzo come lui poteva trovare di meglio.
Un fruscio alle mie spalle mi riscosse dai pensieri nefasti e finalmente l’ansia colpì con tutta la sua forza.
Ecco. Sarò io il prossimo caso di cronaca nera, pensai.
Invece, era solo un gatto nero con un bel collarino rosso.
“Oddio, mi hai spaventato!” dissi al gatto.
Lui mi guardò, con gli occhi gialli e brillanti che riflettevano la luce, e disse solo: “Miao?”
“Gigi!” gridò una voce femminile. “Gigi, dove sei?”
A quel punto il cuore riprese a impazzire di nuovo, e poi qualcuno emerse dagli stessi cespugli da cui era arrivato il gatto; una vecchia signora in tuta da ginnastica rosa, con gli occhiali in tinta e i capelli grigi raccolti in una lunga treccia.
“Gigi, suvvia, torna qui!” insistette la donna. I suoi occhi si volsero nella direzione del gatto, e finalmente mi notò.
“Oh, buonasera!” disse lei. “Ha mica visto un gatto nero?”
Indicai il grosso felino acciambellato ai miei piedi e la donna gli corse subito incontro, lo prese tra le braccia e cominciò a riempirlo di baci in mezzo alle orecchie.
“Sei proprio un furfante”, sussurrò lei. “È la terza volta questa settimana!” Il gatto, dal canto suo, non aveva un’espressione molto penitente. “Che ci fai qui da sola, signorina?” chiese la donna, sedendosi accanto a me con Gigi in braccio. Sentivo distintamente il suono rassicurante delle fusa.
“Niente, non riuscivo a dormire”, risposi.
“Eh, lo dicono tutti. E non dare la colpa al caldo; quando uno ha la testa leggera, il sonno è sempre pesante. C’è qualcosa che ti tormenta?”
In un altro momento avrei pensato che quella signora fosse davvero inopportuna, e invece… invece mi fece piacere trovare qualcuno che fosse disposto ad ascoltare i fatti miei senza essere pagato 50 euro l’ora.
“Tante cose”, dissi, rimanendo vaga.
“Tante cose”, ripeté lei. “Vediamo se indovino”, disse squadrandomi. Gigi emise un paio di “miao”, ma lei non vi badò.
“Dalla faccia, direi che hai circa trent’anni; anche se ne dimostri qualcuno in meno… Vediamo, cos’è che può tormentare una trentenne?”
Mi girai verso di lei, un po’ divertita; stava chiaramente giocando a fare Sherlock Holmes, e decisi di lasciarla fare.
“Non vedo nessun anello alla tua mano sinistra”, continuò lei, “quindi non può essere un marito ad angustiarti”.
“No, infatti”, ammisi. “Ho solo un fidanzato che non mi farà mai la proposta!”
“E ti dispiace? Lo sai che le donne sposate vivono meno e peggio delle zitelle?”
“Può darsi”, risposi, alzando le spalle. “Ma mi piacerebbe avere dei bambini un giorno…”
“Eh beh, per quelli mica serve un marito, sai”.
“No, ma mi servono dei soldi che non ho”.
La donna si fece più vicina, per esaminare ben bene tutto ciò che indossavo.
“Sì, lo capisco. In effetti i soldi risolvono tanti guai, è vero, ma come puoi andarteli a prendere se ti presenti alla vita conciata in questo modo?”
“So di essere vestita male” dissi, indicando le scarpe vecchie e i vestiti larghi. “Ma siamo sul fiume, mica a una sfilata!”
“No, no, no, guarda la tua postura! Te ne stai tutta gobba, come i giovani col telefonino in mano. Se te ne vai in giro così, tutti penseranno che tu non abbia fiducia in te stessa”.
“Penseranno bene”, ammisi. “Non ne ho. Non ne ho mai avuta”.
Per un attimo rimanemmo entrambe in silenzio; solo Gigi rompeva il silenzio con le sue fusa.
“Come mai?” chiese lei, alla fine.
“Perchè ho paura… paura di tutto. E mentre tutti spendono soldi in cocktail e ombrelloni, io sono qui a chiedermi se non sarebbe meglio per tutti se sparissi dal mondo!”
Non so come mi fosse uscita quella frase, ma sentii delle lacrime scorrermi spontanee lungo il naso. Cercai dei fazzolettini nella borsa e mi soffiai rumorosamente il naso.
“Mi scusi, io…” balbettai.
La donna si sedette più vicino a me, accomodando Gigi sulle sue ginocchia, e si tirò su entrambe le maniche della tuta.
“Li vedi questi segni?” disse lei. “Non me li ha fatti il gatto, li ho fatti io, sessanta anni fa, quando tu non eri nemmeno un pensiero astratto”.
“Vuol dire che ha provato a…?”
“Provato? C’ero praticamente riuscita. Ma poi mi sono svegliata in un letto di ospedale; se non mi avesse trovato la domestica, io… non sarei qui a raccontartelo, ecco”.
“Ma perché?” domandai, pentendomene subito. “No, mi scusi, non…”
“Hai fatto bene a chiedere. Io avevo tutto, sai? Ero bella, di famiglia ricca, e stavo per sposarmi. Ma sentivo costantemente di non essere… abbastanza. Sentivo di essere in debito con il mondo, con mio padre che mi aveva dato tutto senza che dovessi mai alzare un dito per lavorare. Conoscevo sarte, contadine, persino qualche maestra, ma io… le mie mani erano quelle di una principessa. E il ragazzo che dovevo sposare… davvero mi voleva per la mia personalità e non per i soldi, o per la mia bellezza? In fondo l’aveva scelto mia madre al posto mio… e così, quando ho sentito che tutto stava diventando troppo, che la mia vita stava seguendo un binario che non avevo mai scelto… Conosci la sensazione, vero?”
“Certo”, sussurrai. “Quel maledetto binario… Io credo di aver scelto quello sbagliato…”
“Forse, ma non è mica scolpito nella pietra, sai?”
Mi fermai un attimo, guardandola negli occhi. In effetti era ancora molto bella, nonostante l’età. Non è mica scolpito nella pietra.
“Quello che non avevo capito”, riprese lei, “è che avevo il diritto di cambiare, se volevo. Potevo impormi con la mia famiglia e cercare un lavoro, rompere il fidanzamento, iniziare a vestirmi come volevo io… e poi, in fondo, non aveva senso cercare una soluzione permanente a un problema temporaneo”.
“E l’ha fatto?” chiesi. “Si è imposta?”
“Ovviamente no”, disse lei ridendo. “Sarebbe stato troppo faticoso. Lasciai che le cose si aggiustassero da sole; il mio fidanzato mi lasciò, perché mi reputò mentalmente instabile, e i miei genitori consultarono tutti i medici della provincia prima di decidere che un lavoretto da segretaria mi avrebbe distratto dai miei problemi. Non sto dicendo che sia giusto aspettare che siano gli altri a decidere, ma… a volte uno si dà tanta pena per un problema che prima o poi si risolverà da solo. E, se non dovesse risolversi da solo, potrai sempre risolverlo tu con le tue risorse. E non dirmi che ne sei priva, perché non ci credo!”
L’Arno scorreva lento davanti a noi, appena increspato dalla brezza notturna.
“Siamo tutti fiumi”, disse la donna. “Tutti prima o poi dobbiamo arrivare al mare… ma ognuno può decidere cosa portare con sé nel tragitto. Tu cosa ti vuoi portare, signorina?”
Stavo per rispondere, ma Gigi balzò sulle mie ginocchia cogliendomi alla sprovvista.
“Visto?” rincarò la donna. “Lo dice anche lui!”
Accarezzai la morbida testolina del gatto, che chiuse gli occhi godendosi le coccole. Avrei avuto i vestiti coperti di peli, ma poco importava ormai.
“Via, noi due dovremmo andare”, disse la signora, rivolta a Gigi. “Ma ti ringrazio per la chiacchierata!”
“No, no, la ringrazio io”, risposi, alzandomi, mentre Gigi tornava tra le braccia della donna.
“E non fare quei brutti pensieri… o meglio, falli pure, se ti danno conforto, ma non ti concentrare su quelli, oppure perderai di vista il tuo percorso!” La donna si alzò da terra abbastanza agilmente e fece per andarsene.
“Un’ultima curiosità!” chiesi io. “Ma alla fine si è mai sposata?”
“Chissà”, disse lei, voltandosi con un sorriso. “Se ci rivedremo ancora, magari te lo racconterò!”
Rimasi per qualche istante a fissare l’Arno; non so bene quando, ma le nuvole si erano dissipate e adesso potevo persino distinguere la cintura di Orione. Guardai lo smartphone ed erano le tre di notte. Camminai fino a casa più svelta che potevo, mi tolsi i vestiti pieni di pelo e li ficcai in lavatrice, e poi mi infilai nel letto. Per una volta, dopo tanti giorni, sprofondai finalmente in un sonno pesante.